Condanna più severa per l’uomo che, avendo praticato boxe, prende a pugni un altro uomo

Va riconosciuta l’aggravante costituita dall’avere fatto uso di tecniche di combattimento tali da ostacolare la capacità di difesa della vittima

Condanna più severa per l’uomo che, avendo praticato boxe, prende a pugni un altro uomo

Colpevole di omicidio volontario l’uomo che, pur avendo praticato boxe per quattro anni, decide comunque di prendere a pugni un altro uomo e, così facendo, ne provoca la caduta che si rivelerà fatale. Per i giudici (sentenza numero 11985 del 26 marzo 2025 della Cassazione) va riconosciuta l’aggravante costituita dall’avere fatto uso di tecniche di combattimento tali da ostacolare la capacità di difesa della vittima.
A dare il ‘la’ all’episodio, risalente a quasi quattro anni e conclusosi con un epilogo tragico, è uno scambio di provocazioni verbali. Da lì, però, si passa alle mani, con l’uomo ora sotto processo che, a fronte di un presunto gesto provocatorio, sferra più pugni al volto dell’altro uomo, che, cadendo a terra, sbatte la testa contro il marciapiede e, in seguito, muore per emorragia encefalica.
Il quadro probatorio è chiarissimo, secondo i giudici di merito, i quali ritengono l’uomo sotto processo colpevole di omicidio volontario, aggravato dai futili motivi e dall’aver commesso il fatto attraverso l’uso di tecniche di combattimento.
Sulla stessa linea di pensiero, poi, anche i giudici di Cassazione, i quali ritengono legittimo parlare di omicidio volontario guidato dal dolo eventuale. Evidente, in questa ottica, il peso specifico dei dettagli emersi tra primo e secondo grado: la pregressa esperienza come boxeur dell’uomo sotto processo, avendo egli praticato la boxe dai 13 ai 17 anni; l’avere egli agito, quindi, nella consapevolezza che, scagliandosi con la massima intensità contro il volto della vittima, quest’ultima sarebbe stata neutralizzata e conseguentemente sarebbe stramazzata al suolo, cadendo su una superficie rigida – non trovandosi in un ring – e con spigoli; la zona vitale attinta, ossia il volto (tutta la parte anatomica che va dal setto nasale a salire, quindi, verso la tempia), con annessa possibilità di emorragie interne; la modalità con cui i colpi sono stati inferti, avendo l’uomo posto in essere una sequenza di colpi – ben quattro pugni, di cui conosceva la micidialità – e avendo, quindi, usato una tecnica replicabile solo da chi conosce le tecniche fondamentali di combattimento, tanto da assumere una posizione di guardia e mantenere una certa distanza dalla vittima in modo da sferrare pugni alla massima potenza, come emerso dalla dinamica fattuale interamente ripresa dalle telecamere e analizzata da un esperto di tecniche di combattimento in servizio presso la Polizia di Stato; la condotta post delictum tenuta dall’uomo, il quale, una volta sferrati i colpi micidiali e pur avendo avuto modo di percepire che il rivale era caduto inerme al suolo, si allontanava con freddezza, senza mostrare alcun tipo di preoccupazione.
Tutti questi elementi sono sufficienti a certificare l’accettazione del rischio dell’evento mortale, sanciscono i magistrati di Cassazione.
Priva di fondamento la tesi difensiva secondo cui l’intenzione dell’uomo sotto processo sarebbe stata quella di intimorire fisicamente il rivale per porre fine alle precedenti tensioni sorte tra loro. Se così fosse stato, l’ex boxeur non avrebbe assunto una strategica posizione di guardia o mirato al volto, ma avrebbe certamente moderato l’intensità dei colpi o quantomeno li avrebbe indirizzati a zone non vitali, annotano i giudici. E in questa ottica è irrilevante la circostanza, evidenziata dalla difesa, secondo cui i colpi inferti in quei frangenti non sono vietati in assoluto nelle attività di combattimento, irrilevante perché, come ribadito dall’esperto sentito in dibattimento, i colpi eseguiti dall’uomo sotto processo sono categoricamente vietati al di fuori del ring, poiché, essendo finalizzati al ko tecnico dell’avversario, rappresentano un rischio per l’incolumità.
Per i giudici, poi, il decesso, nonostante sia avvenuto per emorragia encefalica legata alle fratture craniche, si pone come conseguenza altamente probabile dell’agire dell’uomo sotto processo, il quale ha accettato il rischio che l’uomo colpito, che aveva già perso conoscenza e, quindi, non aveva attivato alcun meccanismo di difesa, urtasse contro un piano rigido, cosa, poi, in concreto avvenuta.

Per quanto riguarda la mancata difesa della vittima, i giudici sottolineano che il fatto è stato commesso da un soggetto particolarmente esperto nell’arte del combattimento, il quale improvvisamente colpiva la vittima, che non era vigile o pronta nell’attuare anche una minima difesa, poiché colta di sorpresa. Rilevante, poi, anche il contesto in cui è avvenuta l’aggressione, contesto che ha contribuito a delineare una situazione di difficoltà per la vittima, che, nel momento in cui veniva colpita, si trovava in una via stretta e buia.

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